Il ruscello scrosciava in un bisbiglio sommesso alle spalle del quale, colline brulle e grinzose scendevano e rampicavano stagliandosi contro al cielo simile a una parete robusta, a quell’ora, d’un rosso cangiante nel quale era possibile intravedere le ultime nuvole piatte e smorte ormai prossime a dissolversi nel crepuscolo.
Io e Becca dividevamo la medesima tenda che un tempo apparteneva a sua sorella maggiore, Sally;
alla Georgetown University si faceva chiamare Seine.
“Hai molto o poco appetito?”.
Scrollai una mano come a dire
-così così-
Alle mie parole Becca pesco’ dalla cassa per il ghiaccio una lattina di birra.
Strappo’ la linguetta e per un secondo la lattina gemette emettendo schiuma: Becca si avvento’ sulla lattina e prosciugo’ la schiuma.
A quel gesto seguì un’imprecazione ma non me ne diedi pensiero.
Ero troppo preso dal consultare il manuale di istruzioni che occorreva al profano al fine di edificare la tenda in maniera corretta e Dio solo sapeva quanto fossi profano in materia, almeno a quei tempi.
Becca stava accartocciando la lattina.
Crepitava alle mie spalle e lo sapevo per certo anche senza voltarmi.
Era una lattina ed era stata accartocciata.
Becca si divertiva a calciarla sbattendola avanti per poi recuperarla e di lì, calciarla in un’altra direzione.
“Gooooooooooal”.
Trasalii e i picchetti mi caddero dalle mani con un tintinnio insopportabile.
“Non credi dovresti darmi una mano invece di giocare a Soccer?”.
Di malavoglia mi raggiunse e si chino’ sul libretto spianato a terra.
“Beh, non occorre un genio mi pare”.
Il suo rigoroso ammonimento mi spinse non a replicare bensì ad allontanarmi e dissi: “Ok, io spalmo burro di arachidi e tu monti la tenda”.
“Non credo ci impieghero’ molto”.
La sua voce mi arrivava come attutita, soffocata dal folto del bosco nel quale ci trovavamo nonostante fosse a dieci passi da me.
“Vuoi salsa sulle braciole, vero ?!”.
Non disse nulla ed io spruzzai la carne in maniera piuttosto spartana poi mi detti a trafficare di nuovo col burro di arachidi.
“Finito” annuncio’. “Che forza”.
Era stata montata, per quanto ne sapevo, in maniera impeccabile ma non glielo dissi limitandomi a stringermi nelle spalle.
“Si mangia ?”.
“Si mangia”.
Avanzava adagio tenendo sul viso la gioia di un condannato graziato all’ultimo secondo.
La sera aveva inequivocabilmente calato la sua grande mano invisibile, sicché tutt’intorno adesso era buio pesto.
“Accendi la torcia” disse. “E il fuoco”.
Le piaceva impartirmi ordini.
Gli avanzi della cena vennero gettati non tra le fitte verdacee del bosco bensì, diligentemente riposte in un sacchetto di plastica.
Noi gente rurale idolatriamo la natura e tutto ciò che rappresenta nel suo insieme; non potremmo mai violarla in nessun modo.
Becca si era chinata in avanti per recuperare i marshmallow.
Il bordo delle mutandine nere che indossava era un gran bello spettacolo e pensai: il cielo benedica i jeans a vita bassa! Lunga vita ai jeans a vita bassa.
Nell’abbrustolire i marshmallow mi venne fatto di pensare a come mai quel periodo si chiamasse “Estate Indiana”.
Non una sola goccia s’era vista da settimane.
Oh cielo, conoscevo bene il periodo coperto da questo fenomeno e sapevo cosa fosse oggettivamente ma ignoravo il perché si chiamasse proprio “estate indiana” invece di che so io “pioggia marrone-arancio” ad esempio, i colori dell’autunno.
Sarebbe a mio parere stato un nome altrettanto e comunque calzante.
Non ebbi il tempo di formulare altre ipotesi poiché qualcuno mi stava battendo la spalla.
“Che c’è?” dissi. “Mi fai male”.
Vedevo che in una delle mani di Becca stava una bottiglia di Jim Beam a metà.
Mi aveva battuto la spalla adoperando il fondo della bottiglia non certo con l’intenzione di ferirmi in qualche modo ma era stato un gesto tanto strambo quanto antipatico e che mi aveva urtato non poco.
“Ma sei scema?!”.
“No, solo un poco ubriaca”
“Un poco”.
Sedette accanto a me e così restammo a lungo senza dire una parola, neanche una sillaba, neanche un sospiro.
Non saprei dire perché ma d’improvviso ebbi la sensazione che tutto cio’ che fino a quel momento era stato così prezioso e indispensabile sia in termini di uso quotidiano come ad esempio telefoni cellulari e computer, sia in termini sociali e spirituali, così profondamente personali, intimi e a tratti inconfessabili per la loro ambiguita’, tutto ciò che apparteneva al mondo così come lo si conosce e lo si reputa e lo si interpreta in automatico come civilizzato e al passo coi tempi, fosse ora mera stupidità nella quale era certo contemplata una totale e definitiva inutilità in tutti i sensi e quand’anche non fosse stato così, cosa era rimasto delle nostre vite umane: piccole, brevi, probabilmente anche senza valore, o con poco valore, o non molto valore e’ come dir lo stesso.
“Chi vuole andare al diavolo non si faccia trattenere…”. Non era stato Lutero a dirlo ?! Forse era Lutero o forse era un altro. Fatto sta che quelle parole non fecero che acuire la mia insofferenza.
Becca fumava fissando come iptnotizzata l’arancio vivo della fiammata.
La legna scoppiettava dentro di essa e di tanto in tanto volavano scintille nell’aria che stava diventando sempre più umida e fredda.
Che sia l’estate indiana a farmi sragionare, pensai.
Ma poi perché sragionare, anzi.
Tuttavia la cosa mi turbava profondamente.
Quella mia riflessione aveva ridestato in me l’angoscia che forse accomuna un po’ tutte le genti.
Era una possibilità.
Il certo era che pure dalla natura che ci circondava ora traevo non poco disagio. Pensavo a tutti gli insetti e altri animali potenzialmente pericolosi che si annidavano (forse) dietro di noi, magari anche sopra di noi, mimetizzati nel fogliame e ulteriormente protetti dal buio.
Pure ve ne fossero stati non avremmo potuto…
mi sfuggì un sorta di ringhio più o meno simile a quando il fumo di un sigaro o di una sigaretta ti va di traverso.
L’orrore di quella situazione scaturita da un ragionamento apparentemente innocuo mi stava viceversa devastando.
Presi la mano di Becca.
Lei strinse la mia.
Ci guardammo negli occhi.
Mi ero perduto tante altre volte nell’azzuro dei suoi occhi ma stavolta era diverso.
Le occhiate ardite di un tempo avevano adesso ceduto il passo a sguardi simili a gridi d’aiuto, almeno per quanto mi riguardava.
Come se avesse compreso, un sorriso morbido e dolce, materno quasi le si stese sul volto e in un soffio mi disse:
“Ti racconto una storia, vuoi?!”.
“Storia davanti alla fiammata”.
“Si”. Confermo’.
“Un grande classico” dissi. “Va bene”.
Seguí un brevissimo ma intenso silenzio, uno di quei silenzi pregni di parole che vengono certo dal cuore e che il più delle volte le persone si vergognano di pronunciare.
“Ma niente storie di paura”.
Mi resi conto che la mia non era una richiesta bensì la stavo implorando.
Avevo paura del bosco, della notte, delle mie terrificanti congetture e non per ultima, della vita in generale.
Mi feci più vicino a Becca per ascoltare il suo racconto.
Di scatto si proietto’ in avanti e in un secondo mi trovai le sue labbra premute sulle mie.
Una goccia, un’altra goccia, un’altra…
stava iniziando a piovere!
GIANMARCO GROPPELLI
da “Storie di vita” (2002) di Gianmarco Groppelli
Casa Editrice Centro culturale
“E. Manfredini” Tradizioni e Prospettive.
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